Se alcuni giocatori della Premier League oggi guadagnano cifre come 300.000 sterline a settimana, devono ringraziare con i loro colleghi che molti anni fa “lottarono” per una completa o quasi liberalizzazione degli stipendi.
Quando il calcio non era strutturato in maniera professionale come lo è attualmente, i calciatori ricevevano più o meno gli stessi soldi dei lavoratori con i quali spesso viaggiavano assieme sui tram o i bus per andare allo stadio.
Al momento della nascita del calcio professionistico, in Inghilterra l’ingaggio dei calciatori prevedeva un tetto salariale: l’intenzione era di sostenere una crescita controllata del sistema, con una cura verso i bilanci evitando spese ingestibili per le società.
In questo modo i proprietari dei clubs erano i veri gestori delle carriere dei giocatori, controllando in toto il sistema dei trasferimenti.
Tuttavia esisteva per gli stessi il modo per svicolare dalle stringenti regole, inserendo nei contratti bonus ed accordi riservati per rendere più appetibile il club.
La risposta dei giocatori fu l’unione in un sindacato, nato nel 1907, che permise di incrementare l’importo massimo, fino ad allora fissato a 4 sterline settimanali, cifra che costringeva spesso gli atleti ad abbandonare l’attività sportiva per cercare un lavoro ben più remunerativo.
Fu con la leadership di Jimmy Hill che il sindacato ottenne il successo: nel gennaio 1961 i calciatori minacciarono lo sciopero se la Football League non avesse operato una modifica. Il tetto fu così innalzato a 20 sterline settimanali.
La grande parte dei calciatori vide all’improvviso gli stipendi raddoppiare, e fu proprio un compagno di squadra di Hill al Fulham, Johnny Haynes a diventare il primo a rompere il muro delle 100 sterline a settimana.