Ettore Messina è in questo momento il coach italiano di basket più titolato a livello di clubs ancora in attività: quattro Eurolega, pari distribuite fra Virtus Bologna e CSKA Mosca, a cui si possono sommare 4 scudetti in Italia e 6 in Russia, oltre a numerosi altri titoli. E sulla panchina dell’Italia ha guidato la nazionale al secondo posto negli Europei 1997. Nell’estate 2016, per il tecnico di Catania fu cocente la delusione del Pre-Olimpico di Torino 2016, quando fallì l’approdo ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, perdendo nello spareggio contro la Croazia.
Poi, come già definito con la dirigenza federale, farà ritorno negli States per tornare al suo lavoro nello staff dei San Antonio Spurs, con la speranza di vederlo presto stabilire il primato di primo italiano ad allenare in NBA come Head Coach.
Ed allora in attesa di vederlo alla guida dell’Olimpia Milano, con compiti anche manageriali, conosciamo meglio l’uomo Messina leggendo le sue frasi più note.
Le frasi famose di Ettore Messina
La difesa, contrariamente all’attacco, deve essere fatta dal blocco omogeneo di tutta la squadra e non è indispensabile la ricerca della perfezione tecnica individuale. La parte più importante di una buona difesa è la motivazione, la costruzione di un gruppo compatto e una mentalità tra i giocatori che li aiuti a condividere lo stesso obiettivo.
L’allenatore deve essere una buona persona che rispetta gli altri, ma che ha la forza necessaria per far si che gli altri lo rispettino.
Sulle regole non vorrei fare un discorso semplicistico, perché ci sono dei casi che meriterebbero molta attenzione. Però chiaramente in un gruppo ci devono essere delle regole che non devono essere imposte ma condivise e chiare. Rispettare le regole solo perché c’è qualcuno pronto a punirti non ha senso, si deve arrivare ad un’autodisciplina. Di solito i gruppi maturi sono formati da persone che riconoscono il valore delle regole e sanno quando fare un passo indietro per favorire un compagno o un collaboratore, ma sanno anche quando è il momento di prendersi delle responsabilità sulle spalle perché hanno la capacità e il talento per farlo che altri non hanno.
È lo specchio della società. L’aggressività, la superficialità, l’egoismo che si vedono nell’aula del nostro Parlamento non sono gli stessi che vediamo sui campi di pallacanestro? Gli esempi sono questi. Ci mancano una leadership responsabile e l’autodisciplina: io ho avuto maestri, scuola, famiglia, amici, università. Adesso ci si chiude con le cuffiette, vedo crescere una forma di individualismo difficile da rompere.
È disciplinato quell’attaccante che sa capire chi è nella migliore posizione per fare un tiro. E se quel giocatore è lui, passare non significa essere un bravo soldato ma rifiutare la propria responsabilità. Autodisciplina, durezza mentale e voglia di sacrificarsi in difesa sono i tratti che le squadre vincenti di qualsiasi livello e continente hanno in comune, e non può essere un caso. È autodisciplina anche dire ai compagni: «Scusate, oggi abbiamo perso per colpa mia perché non ho giocato al mio livello».
Ho perso un fratello e una sorella tra il 2008 e il 2011. In quei momenti ti dà fastidio vedere la quotidianità affrontata con sufficienza mentre tu vorresti tutti impegnati al 101% perché hai avuto la fortuna di svegliarti e fare ciò che ti piace. Avevo reazioni sbagliate. Razionalmente capivo che lo erano ma emotivamente non riuscivo a dominarle per quello che c’era nella mia testa. Per la stessa ragione, ora, anche se vorrei, non so rispondere a chi mi chiede di futuro: non so guardare più in là di domattina.
I campioni e i problemi sono uguali ovunque. Ma le ultime generazioni faticano di più a capire che serve sacrificio per essere all’altezza delle proprie attese. Problema nostro: tocca a noi entrare nella loro testa e aiutarli.