Beppe Conti: quando la passione per le due ruote supera ogni ostacolo

Dalla lettura di un libro all’intervista con l’autore il passo può esser breve, soprattutto quando la casa editrice DIARKOS, che ringrazio, rende tutto così semplice e normale. E Barcalcio non si è fatta scappare l’opportunità di dialogare con Beppe Conti, una delle prime firme del ciclismo italiano, commentatore delle grandi corse sui canali Rai ed appassionato cultore della storia del ciclismo.

Si inizia dal libro, l’ultima sua opera che racconta i 30 grandi dello sport dei pedali, Le Leggende del Ciclismo, per poi spaziare sui temi più attuali, resi più semplici e chiari grazie ai numerosi excursus storici che l’autore ci regala nella sua intervista.

[amazonjs asin=”8832176211″ locale=”IT” title=”Le leggende del ciclismo. Da Gerbi a Pantani, tante grandi storie su due ruote”]

Cominciamo dalla tua ultima opera, quale campione ti sarebbe piaciuto inserire e che per vari motivi sei stato costretto a depennare.

Sicuramente, essendo un’opera che non tratta dei contemporanei, mi sarebbe piaciuto (ed avrei messo) uno come Vincenzo Nibali che può vantare vittorie in corse come tutti e 3 i grandi Giri, fino alla Sanremo. Mentre  uno che mi è dispiaciuto non poter mettere è Gibi Baronchelli, che perse un Giro d’Italia per 12 secondi da un grande come Eddy Merckx, ed uno dei mondiali più duri (Sallanches 1980 n.d.r.) quando si trovò di fronte un campione del calibro di Bernard Hinault, che quel giorno fu davvero imbattibile per tutti. Altrimenti, io penso, con quella vittoria Baronchelli si sarebbe inserito di diritto e di forza nel dualismo dell’epoca Moser-Saronni. A tal proposito, considero proprio Bernard Hinault l’ultimo dei campionissimi, che non amava la Roubaix ma volle andarci per quello spirito che contraddistingue i grandi, che vogliono mostrare a tutti il proprio spessore e la seppe vincere.

La scelta dei 30 grandi: cosa hai voluto privilegiare nel raccontarli, l’aspetto umano o  quello agonistico

Ho cercato di fare un bel mix fra agonismo e personaggio, cercando di scrivere anche per chi non è un appassionato puramente di ciclismo al 100%. Esempio, racconto di Henri Pelissier che venne ucciso dalla sua amante con la stessa pistola con cui si era suicidata sua moglie appena un paio di anni prima. Racconto di Koblet l’angelo biondo del gruppo, che aveva sposato una bellissima donna, che faceva l’indossatrice, ma con la quale i litigi erano frequentissimi, tanto che l’incidente in auto, che portò alla sua morte, rimane ancora avvolto da un profondo mistero mai definitivamente risolto. E racconto di Coppi e la Dama Bianca, situazione amorosa che fece scandalo in quella fase storica e culturale dell’Italia. Non era quindi mio intento dedicarmi al 100% alla parte sportiva, ma poter raccontare e far conoscere al pubblico l’aspetto sociale ed umano del campione.

Nell’aggiungere Armstrong all’opera, senza parlare di giudizi e sentenze, che cosa ti ha colpito di più.

Io gli rimproveravo che si rifiutasse sempre di correre il Giro d’Italia. Un campione di quel rango deve avere il culto della sfida, come ha avuto anche Contador ad esempio in tempi recenti. Nonostante le vittorie in sequenza al  Tour, gli è comunque sempre mancato lo spirito di confrontarsi al Giro ed in altre corse, che a lui non interessavano per nulla. Se tu pensi che fra gli italiani, solo Coppi e Pantani sono riusciti a vincere Giro-Tour nello stesso anno, ti rendi conto della estrema difficoltà dell’impresa. Ad esempio un grande campione come Indurain, sentì ad un certo punto il bisogno ed il gusto della sfida. Non ha mai avuto (Armostrong n.d.r) la curiosità di di gettarsi, almeno un anno, a capofitto nel tentativo di fare l’accoppiata. Poi in quanto al doping è reo confesso. Accusare che anche gli altri lo facessero sono parole, occorre portare le prove o che anche gli avversari fossero stati beccati positivi. Il doping è una piaga dello sport e non del ciclismo come sport singolo. Purtroppo se ne parla spesso, e soltanto, quando colpisce questa disciplina.

Leggi anche  Classiche del Nord 2020: calendario completo (inclusi rinvii)

Potrebbe esistere in futuro un campione che poi, smessi i panni del ciclista, possa diventare un grande personaggio della storia

Tutto è possibile, io penso che i campioni sono figli del tempo, considerando che ora poi ci troviamo in un mondo più globalizzato e diverso, se raffrontati ad esempio ai primi del Novecento. Quegli atleti erano personaggi straordinari, probabilmente irripetibili ai tempi odierni. Ed una convinzione che feci mia, prendendola da un’intervista del grande scrittore e regista Mario Soldati che i Coppi, i Bartali, i Binda, sono stati talmente grandi personaggi, che dovrebbero essere studiati dai ragazzini a scuola per l’impatto che hanno avuto nelle epoche in cui hanno vissuto, segnando la nostra storia e non solo nel ciclismo.

Ritieni che il ciclismo del futuro possa essere stravolto o modificato, per renderlo ancora più globale e televisivo?

Io sinceramente spero che non tolgano le note caratteristiche delle grandi corse: ad esempio non riesco ad immaginare una Sanremo senza il Poggio o la Roubaix senza il pavé. Io spero che in tempi brevi tolgano invece, vietandoli, i misuratori di potenza. Un conto sono le radioline, che possono aiutare a risolvere i problemi di sicurezza, ma con i misuratori, affrontare la salita sapendo quanta energia hai ancora in corpo, si perde intelligenza e fantasia, i corridori non ragionano più di fatto con il loro fiuto. Si tarpano le ali ai colpi di genio ed agli attacchi da lontano che paiono follia in un primo momento, ma in realtà mostrano il lato creativo di questo sport e che sono quelli che piacciono ed infiammano il pubblico a livello emotivo.

Nel commentare oggi una corsa, cosa ti appassiona di più e cosa vuoi far conoscere al pubblico.

A me piace molto raccontare, quando si passa in un luogo, durante la tappa di un giro, che cosa avvenne tanti anni fa, ad esempio se ci fu un successo di Coppi, la crisi di un grande, un ritiro improvviso. Oppure mentre qualcuno dei leader passa all’attacco, valutare, capire se sarà un attacco che avrà successo, chiedere a cmi mi accompagna in trasmissione il suo parere, capire il polso della situazione. E qui si ritorna al discorso dei misuratori di potenza, che limitano le imprese, quei momenti che piacciono al pubblico e rendono grandi gli atleti.

Leggi anche  Le frasi famose di Marco Pantani

Raccontare la vittoria di un italiano ti da un emozione in più?

Sicuramente si, perché ora il ciclismo è diventato globale, tanto che le nazioni che oggi competono sono molte di più rispetto ad altre epoche, come per esempio il Secondo Dopoguerra. Il mondo sportivo è diventato talmente globale che oggi abbiamo a competere con i nostri italiani avversari che provengono da tantissime nazioni diverse. Ai tempi di Coppi e Bartali, con tutto il rispetto per le loro imprese, erano pochi gli avversari, che provenivano da non più di 3/4 nazioni mentre oggi vedi in gara atleti come colombiani, americani, canadesi, sudafricani, keniani (citando Froome, nato appunto a Nairobi),  una concorrenza che si è moltiplicata e che ha reso in questo modo il ciclismo uno sport globale.

Per concludere la chiacchierata, passiamo ad un aspetto autobiografico: come è nata la tua passione per il ciclismo.

Mio padre era appassionato di calcio, ciclismo e boxe e da li mi trasmise la passione per le due ruote. Corsi anche in bici per 5 anni, vincendo 10 corse complessivamente; da allievo, un anno, ero arrivato ad essere addirittura il numero 3 in Piemonte. Fino a che la salita era sui 5 km, ero un buon corridore, stavo coi primi ed ancora abbastanza veloce ma poi, quando le asperità si facevano più dure, mollavo. A 19 deposi le armi, capii che era molto più facile scrivere che praticarlo.

Ho cominciato nel giornalismo, scrivendo di calcio seguendo Torino e Juventus ma la passione era talmente tanta per le due ruote, che decisi di fare una follia lasciando il più grande giornale sportivo d’Italia come la Gazzetta dello Sport, dove ero chiuso nel ciclismo dalle grandi firme, per andare a Tuttosport. Per il quotidiano torinese però, avevo l’opportunità di scrivere del mio sport preferito. Ho lasciato dunque il mio Torino, campione d’Italia nel 1976, per poter seguire un giro d’Italia,  mio sogno fin da bambino ed è stato tale, tanto che uno dopo l’altro, ne ho fatti ben 43!

Poi ho lavorato per le reti Mediaset, Capodistria (prima di diventare Tele+ n.d.r.), ho avuto l’opportunità di seguire due campioni eccezionali come Alberto Tomba e Pantani perché allora per il mio giornale Tuttosport seguivo Tomba nei mesi invernali  e poi con la primavera e l’estate mi trovavo sulle strade a commentare Marco Pantani. Mi sono sicuramente molto divertito nel seguire il ciclismo e le corse. Un pregio, per poter passare dalla carta stampata alla tv, è di essere riuscito ad adattarmi a due giornalismi molto diversi fra di loro, come quello scritto e quello parlato, sapendo trovare ed usare un linguaggio comune, il metodo giusto per dialogare con il pubblico.

Si chiude qui la bellissima opportunità per il sottoscritto, di dialogare con un grande del ciclismo come Beppe Conti e, sperando di risentirci presto, per le sue prossime avventure editoriali, che il divertimento nel seguire il ciclismo possa continuare ancora per tantissimo tempo.

Ringrazio ancora DIARKOS e Gloria Pisana per la gentilissima collaborazione fornita nel mettermi in contatto con l’autore.

Davide Bernasconi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.